La Battaglia di Pävankhind: Il sacrificio immortale dei 300 Mavalas

Il sacrificio immortale dei 300 Mavalas

 

Nel cuore delle aspre montagne del Maharashtra, tra i valichi e le foreste del Sahyadri, si è combattuta una delle più eroiche e tragiche battaglie della storia dell’India: la Battaglia di Pävankhind. Avvenuta nel luglio del 1660, essa rappresenta un emblema del valore, della lealtà e del sacrificio assoluto. Protagonisti furono i guerrieri Mavalas, guidati da Baji Prabhu Deshpande, che sacrificarono la propria vita per assicurare la salvezza del loro sovrano, Shivaji Maharaj, il fondatore del potente impero Maratha.

Shivaji_Maharaj_and_Baji_Prabhu_at_Pawan_Khind

 

La minaccia dell’impero Bijapur

 

Nel XVII secolo, l’India occidentale era divisa tra numerosi regni e potenze in conflitto. L’Impero Maratha, sotto la guida visionaria di Shivaji, si stava espandendo rapidamente, minacciando l’equilibrio delle forze. Questo suscitò la reazione dell’Impero Adilshahi di Bijapur, che vedeva in Shivaji un pericoloso rivale.

 

Nel 1660, il generale Siddi Jauhar, uno dei più temuti comandanti di Bijapur, fu incaricato di reprimere l’insurrezione maratha e assediare il forte di Panhala, dove Shivaji si era temporaneamente rifugiato. Il blocco durò mesi, e Shivaji comprese che rimanere lì significava la cattura o la morte. Decise quindi di pianificare una fuga audace verso il vicino forte di Vishalgad, ma per farlo bisognava attraversare un territorio nemico sorvegliatissimo.

Pavankhind
Il piano della fuga

 

Per depistare il nemico, Shivaji mise in atto un inganno. Fece restare un suo sosia, Shiva Kashid, vestito con i suoi abiti, nel campo, mentre lui e un gruppo scelto di guerrieri Mavalas si prepararono a fuggire sotto la copertura della notte. L’impresa era disperata: attraversare colline e valli sotto l’inseguimento dei soldati di Bijapur, con un piccolo gruppo, era quasi suicida.

 

Il piano fu scoperto troppo presto. Siddi Masud, il comandante incaricato di bloccare ogni via di fuga, fu informato e lanciò i suoi uomini all’inseguimento. Il punto cruciale divenne Pävankhind, uno stretto valico di montagna. Se i nemici fossero passati da lì, avrebbero raggiunto Shivaji.

 

Il sacrificio di Baji Prabhu

 

Fu allora che Baji Prabhu Deshpande, uno dei più fidati generali di Shivaji, propose un gesto estremo: avrebbe fermato l’avanzata nemica a Pävankhind con un manipolo di circa 300 Mavalas, resistendo fino a che Shivaji non fosse giunto sano e salvo a Vishalgad. Sapevano che era una missione senza ritorno.

 

Nel valico, stretto tra pareti rocciose, i 300 si schierarono come una diga vivente contro l’onda nemica. Le cronache raccontano che la battaglia durò quattro ore, con i Maratha che, nonostante l’inferiorità numerica, combatterono con una furia e un coraggio sovrumano, approfittando dell’ambiente angusto e della loro conoscenza del terreno.

Monumento ai caduti della battaglia

Baji Prabhu, nonostante fosse ferito gravemente, continuò a combattere e comandare, fino a che non udì il suono di cinque colpi di cannone provenienti da Vishalgad: era il segnale che Shivaji era arrivato sano e salvo.

 

Solo allora, Baji Prabhu, esausto e morente, poté cadere sapendo che il sacrificio era compiuto.

 

L’eredità della battaglia

 

Il gesto di Baji Prabhu e dei suoi 300 guerrieri è paragonato, in India, all’impresa dei 300 Spartani alle Termopili. Ma se nella narrazione occidentale i 300 morirono invano, a Pävankhind il sacrificio servì davvero a salvare il capo e a permettere la continuazione della lotta per l’indipendenza dei Maratha.

 

Il nome di Pävankhind, che un tempo era solo un valico, è diventato sinonimo di coraggio e dedizione assoluta. Il governo del Maharashtra e vari enti culturali hanno eretto monumenti e memoriali nella zona, e la storia è raccontata in canti popolari, libri di testo, film e drammi teatrali.

 

Impatto culturale e simbolico

 

La figura di Baji Prabhu Deshpande è diventata emblema dell’ideale del Sevadharma, il dovere di servire il proprio re e il proprio popolo sopra ogni cosa. Il valore militare è solo uno degli aspetti della battaglia: l’altro è la lealtà. Non un solo Mavala abbandonò la posizione. Non uno fuggì. Si batterono fino all’ultimo respiro.

 

In un’epoca moderna dominata dall’individualismo, il gesto dei 300 Mavalas assume un significato potente: quello della fedeltà a una causa superiore, della disciplina, dell’eroismo come atto collettivo.

 

In conclusione

 

La Battaglia di Pävankhind non fu una semplice schermaglia montana, ma un capitolo luminoso di storia indiana. Fu la dimostrazione che anche un piccolo gruppo di uomini, armati solo della loro determinazione e del loro amore per la libertà, poteva cambiare il corso della storia.

 

Il sangue versato in quel valico non fu versato invano. Fu seme. E da quel seme nacque un impero che avrebbe resistito ancora a lungo, guidato dallo spirito indomabile di uomini come Baji Prabhu Deshpande. E il nome di Pävankhind, scolpito nella roccia e nella memoria, risuona ancora oggi come un grido di libertà.

 

LEGGI ANCHE https://www.prometeomagazine.it/2025/04/13/la-battaglia-di-saragarhi-ii-coraggio-immortale-dei-21-sikh/